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Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrére

  • Immagine del redattore: Cecilia Costa
    Cecilia Costa
  • 14 mar 2021
  • Tempo di lettura: 2 min

Vite che non sono la mia è il primo romanzo di Emmanuel Carrere che mi capita di leggere e non sarà l’ultimo perché mi ha colpita in positivo. L’ho scoperto grazie a Matteo Fumagalli ed è stata forse una delle letture più toste dell’ultimo periodo.


Cercherò di rimanere il più neutra possibile anche se spero perdonerete una buona dose di influenza personale.

I libri ci chiamano in un momento preciso, sta a noi scegliere se ascoltarli e seguirli. È così che è iniziata la mia avventura con “Vite che non sono la mia”, con un incontro cercato e accantonato in un angolo della mente con la speranza che non tornasse a galla.


Due eventi devastanti caratterizzano il Carrere narratore, a entrambi assiste in prima persona. Il primo è lo tsunami che colpì lo Sri Lanka nel 2004 mentre l’autore e la famiglia si trovavano lì in vacanza. Sarà il tema della parte iniziale del romanzo affrontato attraverso gli occhi di chi ha visto l’onda inghiottire parte della propria vita.

Il secondo plot è la malattia della cognata di poco successiva al ritorno in Francia.

In entrambi i casi dalla fatalità scaturisce una speranza che alimenta il desiderio di riscatto dalla morte.


Per ironia del destino, Carrere, racconta di due Juliette diverse, una poco più che quattrenne, l’altra giovane donna. Attraverso di loro elabora un’accurata analisi del dolore, ricostruendo le loro vite attraverso le parole di chi è rimasto.


La sua penna è particolare, fonde insieme la fiction e le componenti autobiografiche costruendo una storia che ha tanto di umano. Una narrazione delicata che sa fermarsi laddove è necessario. Per questo motivo mi sento di consigliarlo a chi sta vivendo una situazione di pseudo-stabilità emotiva: per qualche capitolo ho temuto che avrei dovuto rimandare a un altro momento perché mi sentivo scavare troppo a fondo.


Ho trovato molto interessante che si sia dato rilievo all’attaccamento alla vita che in situazioni strazianti emerge in modo diverso a seconda della personalità. Non è un elogio funebre. I personaggi coinvolti in prima persona nelle vicende avrebbero tutte le ragioni del mondo per ribellarsi all’ingiustizia che hanno subito, ma scelgono un’altra strada che permetta loro di affrontare la propria rabbia e “rinascere”.


Leggere di dolore, libera dolore, e, scaricandosi, la sofferenza si trasforma in catarsi.

Questa è un po’ la sottotrama dell’intero romanzo: Carrère nel mettere insieme vite che non sono la sua, confrontandosi con alcuni dei suoi personaggi, arriva a uno stadio finale di consapevolezza e maturità.

Leggendo ho avuto l’impressione che fosse necessario per lui provare a catturare queste emozioni per analizzarsi e imparare a conoscersi. C’è una grande crescita personale dalla prima all’ultima pagina.


Tuttavia, non è un romanzo perfetto: le vicende del tribunale che scendono molto nello specifico mi hanno un po’ annoiata e capisco possa rappresentare un ostacolo importante. Diciamo che è un effetto collaterale non insuperabile. Se devo essere sincera, avrei preferito un maggiore approfondimento della prima parte, giusto per permettermi di tirare le somme da sola.


Mi sento di consigliare questo libro anche se in un periodo strano come questo: può fare tanto bene.


“Di fronte alle sofferenze altrui ritrova istintivamente l’atteggiamento che gli ha permesso di sopportare le sue quando era malato di cancro. Ancorarsi al proprio intimo, alle proprie viscere. Non ribellarsi, non lottare, non opporsi: ai farmaci, al decorso della malattia, a quello della vita”


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